Wednesday, February 5, 2014

Pierre Coulibeuf

Pierre Coulibeuf, artista plastico e cineasta, è una figura piuttosto atipica nel panorama internazionale. I suoi film – corti medio e lunghi girati in 16mm e 35mm – sono quasi tutti realizzati a partire dall’immaginario di altri artisti (da Marina Abramovic a Jean-Luc Moulène a Michelangelo Pistoletto), oppure da singole opere (una scultura-architettura di Bustamante in Lost Paradise) o, ancora, ambientati in spazi particolari (un edificio di Rudy Ricciotti in Pavillon noir, un’architettura di Alvaro Siza per la fondazione Iberê Camargo in Dédale). 
Non sono documentari, anche se documentano in qualche modo anche un percorso estetico, né sono film sperimentali e neppure film a soggetto, anche se ne hanno l’impostazione. Sono piuttosto simulacri, vale a dire che materializzano, in una fiction expérimentale, la relazione con un’opera o con un universo mentale. A partire dal 2005, inoltre, Coulibeuf ha trasformato alcuni suoi film in installazioni video in occasione delle sue mostre personali nei musei di tutto il mondo, applicando così ulteriormente alle proprie opere la sua idea di "passaggio” da una forma espressiva all’altra, da un dispositivo all’altro (nel caso specifico cinema/video).

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Tra le figure con cui Coulibeuf ha lavorato c’è anche Jan Fabre. Basandosi sull’immaginario soprattutto teatrale dell’artista belga, il cineasta francese nel 2002 ha costruito il suo Les Guerriers de la beauté, mentre dalla loro collaborazione è appena nato il lungometraggio Doctor Fabre will cure you, presentato in anteprima qualche settimana fa al festival di Abu Dhabi e ancora inedito in Italia. Ma quattro estratti di questo pregevole lavoro sono attualmente visibili al MAXXI all’interno della mostra Stigmata. 
Se Les Guerriers de la beauté era circoscritto ad un unico spazio, una vecchia fortezza di Anversa, qui l’ambientazione abbraccia l’intera città natìa di Fabre, dove ancora vive e lavora, trasformata in un immenso teatro. C’è meno stasi è più azione, un’azione avvincente, frammentata sempre in una serie di "quadri” che ritornano (secondo una struttura tipica del linguaggio filmico coulibeufiano) e dove azione e riflessione si intrecciano., L’immaginario di Fabre – riletto e messo in scena da Coulibeuf – non è dunque mai disgiunto da un confronto continuo e necessario tra l’artista e la storia dell’arte, a cominciare da quella fiamminga, che inevitabilmente ha ispirato il suo lavoro. Un modello iconografico di riferimento dell’intera narrazione potrebbe essere la famosa incisione di Dürer Il cavaliere, la morte e il diavolo, realizzata nel 1514. 

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All’inizio lo stesso artista esplode dei colpi contro la propria tomba, ma l’intero film è punteggiato da alcune frasi tratte dal Journal de nuit pubblicato da Fabre nel 2012 e letto nel corso del film da una enigmatica figura femminile (Ivana Jozic), che assume di volta in volta diversi ruoli: in realtà sono tutte trasfigurazioni della Morte. Non meno importante è la figura del Cavaliere con armatura e vessillo che compare diverse volte. Infine, c’è il Diavolo, che ha le fattezze dello stesso Fabre mentre si cosparge di schiuma da barba di fronte a uno specchio, modellandosi i capelli a forma di corna. E se il denaro è notoriamente lo sterco del diavolo, ecco Fabre vestirsi di banconote e prendere simbolicamente fuoco, una delle tante autonegazioni e catarsi di cui è disseminato il film. 

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Concettualmente la fiction sperimentale di Coulibeuf ruota intorno ad un altro importante tema iconografico che ha attraversato la storia dell’arte: la vanitas. In una sequenza del film la Morte sussurra all’orecchio di Fabre: «Non dimenticare che sei un animale» e la stessa ragazza-lettrice-consolatrice rincorre invano con la sua retina farfalle che non potrà mai catturare. Tutto è effimero, tutto ci sfugge. Così, nell’excipit di Doctor Fabre, il gesto iniziale di profanazione della propria tomba (riproposto specularmente con una concettuale simmetria) assume un significato di rinascita e di immortalità: solo l’artista può negare la morte, solo la creazione può sopravvivere alla dissoluzione del tutto.  
(di Bruno Di Marino)

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